2. Carattere pastorale
Le missioni non erano iniziative totalmente nuove. Erano la continuazione delle campagne dei predicatori del tardo medioevo, che periodicamente percorrevano i paesi della cristianità.
Le differenze però sono notevoli. I grandi predicatori del tardo medioevo e del ‘400 riuscivano generalmente a calamitare folle enormi, ma il risultato era fragile. Suscitavano emozione, ma tutto finiva presto. E poi non avevano la capacità di raggiungere un uditorio più esteso.
Le missioni avevano un carattere più ecclesiale, in quanto partivano da una missio canonica (i missionari sono “inviati”, non “invitati”), più sistematico (i missionari agivano insieme, coralmente, sviluppavano una serie di tematiche in modo graduale, uguale sempre per ogni paese), realizzando un percorso di evangelizzazione e di rinnovamento che si modellava sugli esercizi spirituali ignaziani. Per questo la missione comportava una pars destruens, cioè una correzione di scelte sbagliate dei singoli, e una pars construens, un riavvicinamento dei singoli fra loro (le paci) e con Dio (confessione generale e comunione), un discernimento dei fini e una scelta di discepolato e di “vita devota”.
Propaganda Fide era stata creata non solo per la conversione dei non cristiani, ma anche per quella degli eretici e scismatici, oltre che per impedire i progressi dell’eresia. Nei suoi primordi si era impegnata a sostenere le missioni per la conversione dei protestanti. Aveva agito in due direzioni: sostenendo i gesuiti come S. JeanFrarwois Régis (1597-1640) e i cappuccini, come il P. Chérubin de Maurienne, e pensando di suscitare e guidare una serie di comunità missionarie poste sotto la sua dipendenza. Ma queste équipes missionarie (lazzaristi di S. Vincenzo de Paoli, eudisti, congregazione del SS.mo Sacramento di Christophe Authier de Sisgaud) le erano sfuggite di mano e avevano preferito assumere una struttura congregazionalista1.
Pur con qualche successo iniziale2, soprattutto in zone in cui il protestantesimo non si era ancora solidificato, in sostanza i risultati non furono positivi presso i non cattolici, si tratti degli ugonotti di Francia o dei valdesi delle valli piemontesi. Pérouas ha calcolato per La Rochelle una percentuale di conversioni dello 0,20% prima del 16793. Risultati globalmente non differenti a Nimes4, a Montauban5 o nella valli valdesi6.
Per lo studio delle missioni ci sono alcune opere generali. Se consideriamo l’Italia e la Francia, il terreno della predicazione missionaria fu sia quello cittadino come quello delle campagne. Una prima sistemazione venne da un lavoro del redentorista p. Meyberg, seguito dai pp. Van Delft, Ricci e Orlandi7. In Francia fu anticipatrice a suo tempo una ricerca patrocinata dalla rivista «XVII siècle»8. Grosso spessore informativo ebbe un saggio sintetico, ma molto informato di Bernard Peyrous9. Nel 1980 il p. Giorgini propose una sintesi storica molto interessante. Essa dev’essere letta nel contesto di una riflessione più vasta sulle basi e sul significato delle missioni popolari10. Sempre a livello di sintesi, si deve segnalare un contributo apparso sul Dizionario degli Istituti di Perfezione e una ricerca condotta in Francia in occasione di un colloquio scientifico nel 1980, segno che l’interesse è comune11. Un’ultima opera di sintesi, con una buona informazione sul metodo, anche se un po’ carente per quanto riguarda la storia, è stata pubblicata recentemente da Carmelo Conti Guglia12.
In un libro indubbiamente provocatorio Jean Delumeau ha dato un giudizio molto severo di questa pratica. Dopo aver scritto che le missioni hanno consolidato la pastorale, così commentava: «So bene che l’aspetto autoritario e clericale di questa pedagogia oggi ci irrita. Sarebbero stati forse più efficaci meno sermoni e più carità, meno catechismo e più educazione cristiana, meno cose imparate a memoria e più profondità di fede, meno obblighi e più interiorizzazioni. Ma cerchiamo anche di capire questa terapia da choc a lunga scadenza. All’inizio dell’età moderna l’Europa sarebbe dovuta essere cristiana. Ma non lo era o non lo era abbastanza. Allora, a furia di prediche e di catechismo, con un notevole spreco di dedizione e di fantasia i responsabili della Chiesa, piccoli e grandi, si sforzarono di ricuperare il tempo perduto. Con molta buona volontà commisero degli errori (come ne commettiamo tutti). Ma l’impatto della loro azione fu certamente profondo. Non si è spento»13.
Negli studi successivi Delumeau ha tentato di ricostruire il percorso della secolarizzazione del periodo che va dalla conclusione del medioevo all’inizio dell’età contemporanea14. Ma già fin dal 1971 il suo volume Le catholicisme de Luther à Voltaire aveva posto tre interrogativi: 1) il medioevo è veramente cristiano? 2) la cristianizzazione del secolo XVII è veramente riuscita? 3) la scristianizzazione si può far cominciare solo nel XVIII secolo?15.
Naturalmente per affrontare questo tema della scristianizzazione, che si presenta come un diamante dalle facce molteplici, occorre distinguere fra secolarismo, scristianizzazione, declericalizzazione, deconfessionalizzazione, desacralizzazione e acquisizione di un’autonomia normativa16.
Non mi inoltro nel problema della secolarizzazione che interferisce e interagisce con quello della religiosità popolare17. È legittimo, però, indagare la religione dei missionari in rapporto con quella popolare. Furono in contrasto? Si parla, infatti, di una cultura egemonica, che ha tentato di soggiogare le “classi subalterne”18. L’ignoranza religiosa e le persistenze paganeggianti sono un fatto. Ne parlano in contesti diversi i missionari gesuiti, cappuccini, lazzaristi, redentoristi, passionisti. L’azione di evangelizzazione da un lato sembra abbia valorizzato la domanda religiosa proveniente dal basso19 e dall’altro abbia risposto con modalità efficaci. Queste però non vanno ricercate solo nella teatralità o nelle processioni fastose, ma nell’alternarsi delle tematiche e degli esercizi della missione, che costituivano un utile diversivo che strappava le popolazioni dall’esistenza monotona. Erano un modo di sognare. Erano un’iniezione di speranza in un orizzonte chiuso e incerto. E questo anche grazie a figure-sintesi fra religione popolare e ufficiale come un S. Luigi Grignion de Montfort o un S. Alfonso, presenze che dimostrano come fra religione ufficiale e popolare non vi sia necessariamente conflitto20.
Ma i missionari hanno fatto di più. Riprendendo un articolo di Bernard Dompnier21, attento specialista di questo genere di forma di predicazione, autore di apprezzati lavori22, possiamo dire che i missionari furono i soli che riuscirono a predicare secondo le tre caratteristiche volute da Trento: istruire, convertire, farsi capire23.
Certo, anche il proposito di raggiungere questo triplice scopo non fu sentito in modo unanime. Per la Francia la ricerca di una modalità “popolare” di un Grignion de Montfort24 è ben diversa da quella di un S. Vincenzo de Paoli25. In Italia è noto come nei primordi il fondatore dei passionisti fosse piuttosto cauto nelle manifestazioni esteriori, cosa che i seguaci non continuarono26.
Piuttosto si deve osservare come certi gesti definiti teatrali facessero parte di un linguaggio adatto a colpire le popolazioni più semplici. Scrive Giorgini: «Trovandosi dinanzi a persone con poca o nessuna cultura e bisognosa di immagini, si dipingevano a vivi colori le scene della passione sviluppando assai il colloquio con Gesù, con la Madonna e con i presenti in modo da creare un coinvolgimento emotivo-spirituale molto forte»27. Però più che nelle scene il «parlare alla missionaria» era un modo autoritario, incalzante, suadente per arrivare alla conversione e a instaurare un nuovo clima personale e sociale. Giudicare questo con i criteri attuali di una spiritualità più interiore è anacronistico28.
Siccome tutto ciò aveva una resa sicura, ecco la considerazione ambivalente delle campagne non solo come luogo dei lontani, ricettacolo di superstizione, ma anzi come il vaso di alabastro in cui si conserva la vera religione. Così disse S. Vincenzo ai suoi: «O Salvatore, o Salvatore. Se vi è la vera religione! […] E tra loro, tra quella povera gente che si conserva la vera religione, una fede viva; credono semplicemente, senza investigare»29.
Roberto Rusconi tratta del tema della predicazione missionaria soprattutto in un grande affresco dedicato alla predicazione, che costituisce il maggior contributo all’argomento30. Il titolo è già eloquente: Dalle «Indie di quaggiù» ad un cristianesimo rurale31. Scrive pertanto che le missioni cominciarono per contenere la diffusione del protestantesimo, questo soprattutto per opera dei gesuiti (leggi le missioni di Possevino) e dei cappuccini32. Le campagne pertanto «poco o scarsamente toccate da una “cristianizzazione” superficiale,» — scrive ancora Rusconi — «vengono fatte oggetto più di una conquista che di un recupero in senso stretto»33. Per esse l’autore trova prevalente il significato di «contenimento e di pacificazione sociale». La cosa è vera per le missioni napoletane all’epoca della rivolta antispagnola a Napoli e anche per quelle in Corsica dei lazzaristi34 e di S. Leonardo mezzo secolo dopo questi ultimi35.
Siamo d’accordo con l’autore quando valorizza l’incidenza delle missioni sul piano civile e religioso. Per esempio la pacificazione e la lotta contro lo spirito di vendetta. Credo che sotto questo profilo ci si possa porre una domanda: le missioni sono veramente state efficaci contro lo spirito di vendetta? La verifica potrebbe venire dal fatto che la si è scoperta in taluni paesi dell’Italia settentrionale infestati da faide familiari che sono praticamente scomparse dal costume. Per esempio, i missionari trovarono a Savigliano, Barge e Bra in Piemonte negli anni 1657 e 1658 una situazione socialmente esplosiva. Su Savigliano si scrive che «si fecero in quel luogo gran quantità di paci per morti seguite, molti aggiustamenti per interessi di rilievo». Barge è descritto come «luogo già quasi deserto e distrutto per le continue risse e questioni che vi regnano […] v’è quantità di vedove per essere stati i loro mariti uccisi dai nemici»36. E vero che nel caso di Barge gli odi si riaccesero, segno di un costume inveterato, e che quindi il richiamo di una missione non bastava a estirpare. Se però in quelle zone scomparve il costume della vendetta è possibile domandarsi se la frequenza delle missioni non sia riuscita a sradicare un costume e a radicarne un altro.
Importante è la conclusione di Rusconi sull’efficacia delle missioni in ordine al rafforzamento delle strutture diocesane e parrocchiali. Tra parentesi, questo contribuì a indebolire le stesse comunità missionarie, perché una volta rassodate le strutture ecclesiali, i missionari diventavano meno indispensabili. «Le missioni settecentesche» — annota Rusconi — «diedero un’impronta complessiva alle forme della pratica religiosa popolare e riuscirono ad elaborare un rapporto nuovo tra clero e fedeli, ridando una funzione sociale alle istituzioni cattoliche e, in particolare, a lungo termine, alla parrocchia»37.
Più problematico un giudizio dell’autore che vorrei riprendere per averne eventualmente una base di discussione: «In Italia e in Spagna non prese piede la missione catechistica praticata in paesi come la Francia, dove si poneva prioritariamente il problema di arginare la diffusione delle dottrine protestanti, ma la missione penitenziale»38. Giorgini scriveva in proposito: «Studiando i diversi metodi si nota che la differenza fondamentale non si deve ricercare tanto nell’accentuazione penitenziale o in quella catechistica, quanto nella impostazione geografica, per cui si aveva una missione cosiddetta “centrale” ed una “missione locale”, strettamente parrocchiale»39. Forse la verità è come la virtù, cioè complessa e mai unilaterale, nel senso che le missioni erano per la metà catechismo, ma che presentavano poi una componente di maggioranza che rendeva il linguaggio complessivo più propenso a uno dei due nodi estremi. Per questo vorrei segnalare che la presenza in Italia dei lazzaristi, ma anche degli oblati di Rho e dei redentoristi potrebbe forse modificare il giudizio.
Un’opera che ha cercato di sintetizzare il significato delle missioni nel quadro della storia della Chiesa è quella recentissima di Louis Chaellier40. La missione nasce come traduzione del duplice impegno tridentino di istruire e condurre alla pratica della vita cristiana. Il pubblico potenziale era anch’esso duplice: quello dei cattolici da fortificare e confermare, e quello dei riformati che avrebbero potuto essere ricondotti all’Una Sancta solo dalla volontà del principe. Dopo pertanto la prima ondata di missioni fra i riformati, ecco che nacque l’esigenza di limitare il raggio d’azione aí paesi cattolici. È quanto i maestri dell’Écok franpise s’imposero. S. Vincenzo, come Bérulle, Olier ed Eudes mandarono i loro missionari nei paesi cattolici per un apostolato teso a farne dei buoni cattolici.
Grosso modo fu dopo Westfalia che si ebbe lo slancio massimo nella missione. A esso parteciparono grandi talenti. Bossuet, discepolo di S. Vincenzo, vi si consacrò. La missione fu per lui una scuola importante come ha riconosciuto Jacques Le Brun41. Bourdaloue e Fénelon vi parteciparono. Ma furono talenti naturali come i due Segneri, Honoré de Cannes o Pedro Calatayud che seppero dare lustro alla missione. Il loro successo non derivava tanto dalle qualità oratorie o trovate teatrali, ma dal fatto che vivevano quello che predicavano e si presentavano non come degli attori, ma come «uomini apostolici»42.
Il successo delle missioni suggerì il tentativo di “riunione” di Strasburgo per mezzo di una grande missione predicata nell’inverno 1684-1685. Il fallimento di essa fu forse, secondo l’autore, la ragione della revoca dell’editto di Nantes43.
Visto l’insuccesso delle missioni per il ricupero dei protestanti, le missioni divennero «la forma privilegiata scelta dalle popolazioni per vivere la loro religione»44. Non è privo di significato il fatto che quando i missionari tentarono una predicazione irenica, che metteva in secondo piano le differenze confessionali e faceva leva sui punti comuni, essa fallì, mentre fu più efficace quando si accentuarono i punti in conflitto45.
L’autore riconosce alle missioni un ruolo fondamentale nel plasmare le mentalità popolari, i comportamenti quotidiani e a trasmettere un’immagine popolare della religione. Sarebbe interessante esaminare l’immagine di Dio trasmessa dai missionari. Fu prevalentemente quella del Dio giudice? Quanto fu dominante la componente “paura”? Ma la paura era un elemento dialettico che doveva arrivare alla sintesi della conversione. Non credo sia sufficiente scorrere gli argomenti dei discorsi per poi fare una statistica della percentuale della paura. L’esperienza della missione è un po’ come quella della tragedia antica che portava alla catarsi. Di qui l’importanza della croce (che veniva ostentata, nascosta, voltata, brandita, portata in processione) e della dinamica della passione con i misteri della Via crucis46, del Sacro Cuore47, delle cinque piaghe48, del preziosissimo sangue49.
La missione spezzava il pane della parola, ma anche quello materiale. Se Bossuet poté scrivere dell’Eminente dignità dei poveri50, lo si deve alla sua esperienza alla scuola di S. Vincenzo, che, nelle missioni, come atto conclusivo, voleva la creazione della confraternita della carità. I missionari di tutte le famiglie religiose s’interessavano delle situazioni di fame, cioè del pane materiale, come appare dal miracolo del pane di S. Gerardo Maiella51. Nello Stato della Chiesa la mancanza di pane era il grande problema sempre incombente52. A Monticelli nel Lazio nel 1741 «molte famiglie passavano delle giornate senza gustar pane»53.
Ma si preoccupavano anche di quello della concordia. Le scene raccontate dai missionari in Corsica, con le chiese piene di gente armata, erano un indizio inquietante per la pace sociale. I missionari lavorarono con impeto per il perdono, per la remissione delle offese, per la restituzione di ciò che era stato sottratto in modo fraudolento agli altri. Per questo Chtellier conclude: «Il progetto missionario fu dunque immenso poiché cercando di riconciliare gli uomini fra loro e con Dio mirava niente meno che a riformare il mondo dominato dalla divisione, dall’egoismo e dall’odio»54.
La missione non era fine a se stessa, ma mirava a costruire la Chiesa delle anime. Per questo l’autore sintetizza la parabola della missione con questa espressione: «dalla missione alla pastorale»55. Arrivando nei paesi, i missionari entravano in contatto con il clero. Poco per volta il primo beneficiario della missione fu proprio questo clero. Non è senza significato che l’esperienza della missione indusse S. Vincenzo a impegnarsi per i seminari. Furono fatti incontri per i preti, ma soprattutto i preti impararono a predicare dai missionari. Erano stimolati da essi e indotti, quando i missionari erano lontani, a parlare con analoghe movenze oratorie.
Dalle missioni nacquero, poi, ritiri spirituali e gruppi di preghiera, come le cappelle serotine e le associazioni dell’adorazione perpetua. Sicché verso il 1770 «il missionario lasciava il posto al parroco e la missione si faceva da parte davanti alla rete di associazioni, di scuole della dottrina, di confraternite, di congregazioni, di ritiri, di organismi… Le nuove missioni dei villaggi non riguarderanno più la massa, ma serviranno alla formazione religiosa dell’individuo nel quadro spesso abbastanza esiguo della parrocchia»56.
È chiaro che da queste pagine si raccolgono una serie di idee per un lavoro comune sulle missioni.
Innanzi tutto una carta delle missioni non potrebbe verificare il rapporto fra le missioni ben riuscite e i paesi in cui si è conservato più forte il cattolicesimo? Un simile paragone si è tentato in Francia per quanto riguarda le zone delle missioni di S. Luigi Grignion de Montfort e quelle a più forte tasso dei preti non giurati.
Un’altra inchiesta che potrebbe essere opportunamente tentata potrebbe essere quella di raccogliere l’insegnamento catechistico dei missionari, soprattutto su alcuni temi, come quelli della morale (severità o mitezza, quinto comandamento, sesto comandamento, ma anche bestemmia, fuga dal ballo e dai, teatri, abbigliamento, frequenza delle osterie e caffè, ecc.), senza trascurare quelli dogmatici (cristocentrismo, la grazia, i sacramenti, mariologia, novissimi). In particolare, per quanto riguarda l’insegnamento della morale, la diversità di opzione fra missionari e vescovi poteva apparire un invito alla contestazione57.
Un punto di particolare interesse potrebbe essere il rapporto fra le missioni e la religione popolare. Kaunitz scriveva a Firmian nel 1767: «I missionari animati più di fanatismo che di zelo sanno impadronirsi delle vivaci immaginazioni del volto, e l’impressione che vi resta, congiunta alla differenza, che passa colla placida e sensata dottrina de’ parrochi fa al medesimo prestar più fede alle declamazioni enfatiche de’ frati ambulanti, che ai propri loro pastori»58. Poco dopo, il sinodo di Pistoia metteva in dubbio la realtà delle conversioni operate dalle missioni: «Lo strepito irregolare di quelle pratiche nuove che si dissero esercizi o missioni, e il terrore improvviso di una tempesta o di una temporale minaccia, forse non arrivano giammai, o vi arrivano ben di rado a produrre una conversione compita, e quelli atti esteriori che apparvero di commozione, non furono che lampi passeggieri di un naturale scuotimento»59. Sulla scia di Muratori la contestazione delle dinamiche popolari delle missioni si fece sempre più forte60, tanto più che gli stessi missionari si accorsero che, nonostante la molteplicità delle missioni, l’ignoranza delle popolazioni persisteva61.
La contestazione nasceva all’interno di una cultura impregnata di illuminismo, incapace di capire il significato della religione popolare, o meglio, come ha scritto Clútellier, «dei poveri». Era logico imputare alla missione la responsabilità di aver creato una sintesi così efficace fra esigenze dottrinali e di riforma e la sensibilità popolare, di cui gli illuministi erano certamente estranei.
È, come si vede, una trattazione molto significativa che ci ha permesso di affrontare il tema della missione in modo molto ricco e con un discorso di ampio respiro.
Esso non può esaurire il problema, in quanto va completato con l’esperienza dei maggiori protagonisti delle missioni.
- Cfr. B. JACQUELINE, Un tournant de l’histoire des missions: róle et méthodes de la S.C. «de Propaganda Fide» d’après le cardinal Ludovisi, in «Documents Omnis Terra» 83 (1971) 440-448; ID., La sacrée congregation «de Propaganda Fide» sous le pontificat de Grégoire XV, in «Revue d’Histoire de 1’Église» 66 (1971) 46-82; Sacrae congregationis de Propaganda Fide Memoria Rerum. 350 anni al servizio delle missioni, a cura di J. METZLER, I/1 (1622-1700), Rom-Freiburg-Wien 1972; B. DOMPNIER, «Propaganda fide» et les compagnies missionnaires, in Vincent de Paul. Actes du colloque international d’études vincentiennes, Roma 1983, 42-63.
- I cappuccini del Poitou praticavano questo metodo: confessavano, facevano il catechismo, sostenevano dibattiti controversistici e celebravano in gran pompa le quarantore, a’volte alla presenza di 50 o 60.000 persone.
- Cfr. L. PÉROUAS, Le diocèse de la Rochelle de 1648 à 1724, Paris 1964.
- Cfr. R. SAUZET,Lontre-reforme et réforme catholique en Bas-Languedoc. Le diocèse de Nimes au XVII” siècle, Paris-Louvain, 1979.
- Cfr. L. MEZZADRI — J.M. ROMAN, Storia della congregazione della missione, I: Dalla fondazione alla fine del XVII secolo (1625-1697), Roma 1992.
- Cfr. L. NUOVO, La predicazione missionaria vincenziana tra ‘600 e ‘700 al di qua dei monti dal 1655 al 1800, Roma 1990, 130 s.
- Cfr. A. MEIBERG, Historiae missionis. Cfr. pure: M. VAN DELFT, La mission paroissiale; V. Ricci, La missione tradizionale; G. ORLANDI, Missioni parrocchiali e drammatica popolare, in «Spicilegium Historicum Congregationis SS.mi Redemptoris» 22 (1974) 313-348.
- Missionnaires catholiques à l’interieur de la France pendant le XVIle siècle, in «XVIIe siècle» 10 (1958) n. 41.
- B. PEYROUS, Missions paroissiales, 401-431.
- E GIORGINI, Ruolo delle missioni “itineranti”, 47-94.
- Cfr. L. MEZZADRI, Missioni e predicazione popolare, 563-572; Les réveils missionnaires en France, passim.
- Cfr. C. CONTI GUGLIA, Il Vangelo agli ultimi, passim.
- J. DELUMEAU, Il cristianesimo sta per morire?, Torino 1978, 101.
- Cfr. J. DELUMEAU, La mort des pays de Cocagne, Paris 1976; La peur en Occident (XIV-XVIlle siècles). Une cité assiégée, Paris 1978; ID., Le péché et la peur. La culpabilisation en Occident (XIIIe-XVIlle siècles), Paris 1983; ID., La première communion. Quatre siècles d’histoire, Paris 1987; ID., Rassurer et protéger. Le sentiment de sécurité dans l’Occident d’autrefois, Paris 1989; ID., L’aveu et le pardon: les difficultés de la confession XIIIe-XVIIIe siècle, Paris 1990.
- Cfr. J. DELUMEAU, Le catholicisme de Luther à Voltaire, París 1971 (tr it. Il cattolicesimo dal XVI al XVIII secolo, a cura di M. BENDISCIOLI, Milano 1976).
- È un dibattito che parte dalla carta religiosa della Francia rurale che dimostra la scristianizzazione nelle campagne. La tesi di M. VOVELLE, Piété baroque et déchristianisation en Provence au siècle, París 1973, dimostra che il fenomeno supera la rivoluzione francese e appare già nei testamenti provenzali. Per la problematica storica: Histoire de la France religieuse a cura di J. LE GGFF – R. REMOND, III: Du roi très chrétien à la laicité républicaine (XVIIIe-XIXe siècle), Paris 1991.
- Cfr. P. BURKE, Cultura popolare nell’Europa moderna, Milano 1980; A. LoTIERZO, Il concetto di religione popolare in E. De Martino e G. De Rosa, in Studi di storia sociale e religiosa. Scritti in onore di Gabriele De Rosa, Napoli 1980, 99-119; E SALIMBENI, La religiosità popolare. Lineamenti metodologici e storiografici, in «Orientamenti Sociali» 36 (1981) 171-183; B. BOSATRA, Recenti miscellanee sulla religiosità popolare, in «La Scuola Cattolica» 110 (1982) 65-84; 300-313; 451-472; 111 .(1983) 450-475; 113 (1985) 546-574; 115 (1987) 48-83; D. ZARDIN, Dibattiti recenti sulla religione «popolare”, in «Vita e Pensiero» 68 (1986) 446-455; B. BOSATRA, La religiosità popolare tra Cinque e Seicento, in La Chiesa nell’età dell’assolutismo confessionale. Dal concilio di Trento alla pace di Westfalia (1563-1648), a cura di L. MEZZADRI, Torino 1988 (Storia della Chiesa diretta da A. Fliche-V. Martin, XVIII/2), 437-457.
- Cfr. C. GINZBURG, Folklore, magia, religione, ín I caratteri originali, Torino 1972 (Storia d’Italia 1), 601-676; ID., Stregoneria, magia, superstizione in Europa fra medioevo ed età moderna, in «Ricerche di Storia Sociale e Religiosa» 11 (1977) 119-133; ID., Religioni delle classi subalterne, in «Quaderni Storici» 14 (1979) 391-697.
- Cfr. R. COLOMBO, Il linguaggio, 406 s.
- Si veda quanto ha scritto P.E. COMMODARO, La diocesi di Squillace attraverso gli ultimi tre sinodi. 1754,1784,1889, Vibo Valentia 1975.
- Cfr. B. DOMPNIER, Le missionnaire et son public, in Journées Bossuet. La prédication au XVII° siècle, Paris 1980, 105-128.
- Cfr. B. DOMPNIER, Activité et méthodes pastorales des Capucins au XVIIe siècle. L’exemple grenoblois, in «Cahiers d’Histoire» 22 (1977) 235-254; ID., Le venin de l’hérésie. Image du protestantisme et combat catholique au Xlle siècle, Paris 1985; ID., Les Jésuites et la dévotion populaire. Autour de l’origine du culte de saint Jean-Franpis Régis (1641-1676), in Les jésuites parmi les hommes aux XVI” et XVIIe siècles, Clermont-Ferrand 1987, 295-308; ID., Les missionnaires, les pénitents et la vie religieuse aux XVIP et XVIII” siècles, in Les confréries de pénitents, Valence 1988, 139-159.
- Cfr. Sess. V, cc.1-3 de ref.: Conciliorum oecumenicorum decreta, Bologna 1973, 667 s.; sess. XXIV can. 4 de ref.: ivi, 763.
- Cfr. L. PÉROUAS, Grignion de Montfort, les pauvres et les missions, Paris 1966; ID., Ce que croyait Grignion de Montfort, Paris 1973; TH. REY-MERMET, Louis-Marie Grignion de Montfort (1673-1716), Paris 1984.
- Cfr. L. MEZZADRI, San Vincenzo de’ Paoli e la religiosità popolare, in «Annali della Missione» 89 (1982) 77-102; ID., San Vincenzo Depaul e la festa, in «Communio» 62-63 (1982) 113-119.
- Cfr. F. GIORGINI, La missione popolare passionista in Italia. Saggio storico, Roma 1986 (Ricerche di storia e spiritualità passioniste, 33).
- Ivi, 10 S.
- Cfr. B. DOMPNIER, Activité, 252.
- SAINT VINCENT DE PAUL, Correspondance, entretiens, documents, éd. P. COSTE, 14 voll., Paris 1920-1925; cfr. spec. XI, 200.
- Cfr. R. RUSCONI, Predicazione e vita religiosa nella società italiana. Da Carlo Magno alla controriforma, Torino 1981; ID., Predicatori e predicazione (secoli IXXVIII), in Intellettuali e potere, a cura di C. VIVANTI, Torino 1981 (Storia d’Italia. Annali, 4), 949-1035.
- R. RUSCONI, Predicatori, 1006.
- Scrive Dompnier che per un mezzo secolo (ma in Francia) i cappuccini non lavorarono che in ambiente protestante. Solo dal 1676 furono organizzate le prime missioni «inter populos fideles» (B. DOMPNIER, Activité, 243).
- R. RUSCONI, Predicatori, 1007.
- Cfr. L. MEZZADRI, Le missioni popolari in Corsica, in «Vincentiana» 28 (1984) 62-77.
- Cfr. R. COLOMBO, Il linguaggio, 369 -428.
- L. Nuovo, La predicazione missionaria, 109s.
- R. RUSCONI, Predicatori, 1011.
- Ivi, 1007.
- E GIORGINI, Ruolo delle missioni “itineranti”, 75.
- Cfr. L. CHÀTELLIER, La religion des pauvres. Les missions rurales en Europe et la formation du catholicisme moderne XVIc-XIXe siècle, Paris 1993,46.
- Cfr. J. LE BRUN, La spiritualité de Bossuet, Paris 1972. Cfr pure J. TRUCHET, La prédication de Bossuet. Etude des thèmes, I, Paris 1960, 198-220.
- L. CHÀTELLIER, La religion des pauvres, 69.
- Cfr. ivi, 79.
- Ivi, 118.
- Cfr. ivi, 119.
- S. Leonardo da Porto Maurizio fu il grande diffusore: A. WALLENSTEIN, Die Bedeutung des H. Leonhardus von Porto Maurizio fiir die Verbreitung der Kreuzwegandacht, in «Archivum Franciscanum Historicum» 37 (1944) 353; fu contestata da Puiati e difesa da I. Affò: I. AFFÒ, Apologia del pio esercizio della via crucis opposta alle censure di PD.G.M. Puiati, Parma 1783; La sapienza della croce, 3 voli., Torino 1976.
- Cfr. A. TESSAROLO, Il culto del S. Cuore, Bologna 1957.
- Cfr. I. BONETTI, Le stimmate della passione, dottrina e storia della devozione alle cinque piaghe, Rovigo 1952.
- S. Gaspare del Bufalo fondò i Missionari del Preziosissimo Sangue. L. CONTEGIACOMO, Il sangue di Cristo in S. Gaspare del Bufalo, Roma 1968; B. CONTI, San Gaspare apostolo del sangue di Gesù, Roma 1970.
- Il sermone è probabilmente del 1659: J.-B. BOSSUET, L’eminente dignità dei poveri nella Chiesa. Il ricco epulone, Roma 1943. Sul problema dei poveri: D. MENOZZI, Chiesa, poveri, società nell’età contemporanea, Brescia 1980; G. BurruruNI, Breve storia della carità. La Chiesa e i poveri, Padova 1989.
- Cfr. G. DE ROSA, Pertinenze ecclesiastiche e santità nella storia sociale e religiosa della Basilicata dal XVIII al XIX secolo, in Società e religione in Basilicata, I, Matera 1977,15-73.
- Cfr. M. PETROCCHI, Roma nel Seicento, Bologna 1970; V.E. GIUNTELLA, Roma nel Settecento, Bologna 1971; B.H. SLICHER VAN BATH, Storia agraria dell’Europa occidentale (500–1850), Torino 1972; M. CARAVALE — A. CARACCIOLO, Lo Stato Pontificio da Martino V a Pio IX, Torino 1978.
- G.F. Rossi, Missioni vincenziane, religiosità e vita sociale nella diocesi di Tivoli nel sec. XVII-XIX, in «Atti e Memorie della Società Tiburtina di Storia e d’Arte» 53 (1980) 181.
- L. CHATELLIER, La religion des pauvres, 212.
- Ivi, 247.
- Ivi, 268.
- Cfr, ivi, 272.
- P. VISMARA CHIAPPA, L’abolizione delle missioni urbane dei gesuiti a Milano (1767), in «Nuova Rivista Storica» 62 (1978) 551; M. ROSA, Scipione de’ Ricci tra pietà illuminata e religione popolare, ín Il sinodo di Pistoia del 1786. Atti del convegno internazionale per il secondo centenario, a cura di C. LAMIONI, Roma 1991.
- Sess. V, X: Atti e decreti del concilio diocesano di Pistoia dell’anno 1786, a cura di P. STELLA,I, Firenze 1986, 147.
- Cfr. G. ORLANDI, L.A. Muratori e le missioni di P Segneri jr, in «Spicilegium Historicum Congregationis SS.mi Redemptoris» 20 (1972) 158-294; ID., Missioni parrocchiali e drammatica popolare, in «Spicilegium Historicum Congregationis SS.mi Redemptoris» 22 (1974) 313-348.
- Cfr. L. CHATELLIER, La religion des pauvres. 274.