Linee della pastorale missionaria di Abuna Yaqob

Francisco Javier Fernández ChentoGiustino De JacobisLeave a Comment

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Author: Luigi Betta, C.M. · Year of first publication: 1975 · Source: Vincentiana.
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In alcuni documenti del 1868, atto anni dopo la morte del­l apostolo Giustino De Jacobis, si troyano gíudizi autorevoli dei superiori maggiori sulla sua attivitá missionaria che lasciano per lo mena molto perplessí, anche se bisogna tener canta delle av­versitá e dei contrasti che in quegli anni avevano provato tremen­damente la missione etiopica

Fin dagli anni quaranta, poco dopo l’inizio della missione, sí riteneva a torta che il De Jacobis non avesse alcuna idea, alcun piano preciso, alcuno spirito di organizzazione. Tanto che alla fine del 1856 i superiorí pensavano di richiamarlo in Europa, nonostante che cinque anni prima la visita canonica fatta dall’assistente generale P. Marc-Antoine Poussou cm., fosse stata molto favo­revole. « Mons. De Jacobis sembra appositamente fatto, scriveva l’assistente generale nella sua relazione a “Propaganda”, per vive- re con gli abissini. Buono, dolce, caritatevole, mortificato, pazien­te, non si distingue in nella dall’ultimo dei preti, che egli imita nel mangíare, nel vestire, ed in tutti gli usi leciti della vita, va scalzo, e per vestimenta non porta che le mutande, una tunica di grossa tela ed un berrettino di tela in testa. Il suo letto é una pelle di vacca, sua cavalcatura un bastone, lungo cinque o sei piedi; se in viaggio si fa seguire alle volte da un giumento, non b tanto per uso suo, quanta per uso di quelli che l’accompagnano e sembrano agli occhi suoi averne pib bisogno. Questa vita sem­plice, frugale b molto dura per un europeo, altrimenti abituato, gli ha acquistata la stima generale. Lo dicono santo. E se Dio ha disegni di misericordia sull’Abissinia, Mons. De Jacobis mi sembra la persona piú atta ad esserne lo strumento». La rela­zione, valutando la situazione precaria dei missionari sempre og­getto della persecuzione dell’Abuna Salama, ritiene che, senza scoraggiarsi « debbono continuare a seguire il metodo tenuto fi- nora, pregare, combattere i pregiudizi nazíonali e non precipitare nulla»…

De Jacobis nell’impiantare la Chiesa cattolica in Etiopía e nel realizzare l’espansione del Regno di Dio in quella terra (che chiama mia povera patria di elezione), di fatto esercita durante pib di venti anni un’azione missionaria intelligente e precisa, che con terminí moderni si pub chiamare « pastorale missionaria».

Purtroppo quasi tutti in Europa ignoravano la esatta ubicazione umana, geografica e religiosa dell’Etiopia nel mondo di allora, come pure le reali possibilitá, le enormi difficoltá e la oggettiva situazione della missione cattolica.

Forse per questo da alcuni si aspettavano i frutti immediata­mente evidenti, oltre che la sistematicitá, la funzionalitá e la efficienza di una organizzazione missionaria bene ordinata, come se quel paese fosse in Europa e come se tutto si potesse realiz­zare al movimento di una bacchetta magica. Ma umilmente bisogna tener presente che l’azione missionaria é un fatto eminentemente spirituale e religioso. Essa penetra nel tessuto sociale, culturale e religioso del paese prescelto, lentamente lo trasforma, non conscadenze predeterminate, ma con le lente e dolorose tappe del Vangelo, segnate dalla Provvidenza divina piú che dal tempo.

Comunque, nonostante i giudizi affrettati e superata la impre­parazione iniziale, Giustino De Jacobis, mosso dalla potente ispi­razione di Dio, con semplicitá mette in opera una pastorale mis­sionaria, che si valeva di un piano, di un metodo e di una strategia, non applicandoli in modo rigido, ma, secondo le esigenze della pastorale stessa, con intelligenza e flessibilitá.

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Appena arrivato a Adua alla fine di ottobre 1839, il De Jacobis si mise a studiare assieme al confratelli, p. Giuseppe Sapeto (1811-­1895) e p. Luigi Montuori (1798-1857), lo stato reale del paese la possibile azione missionaria da svolgere. Di comune accordo in piena armonia di intenti stabilirono il loro preciso disegno, che certamente si valse della esperienza giá acquisita dal Sapeto in quasi due anni di permanenza nel paese.

L’ispirazione, che li comandava dal di dentro e contemporanea­mente li confortava col mandato della Sacra Congregazione di Propaganda Fide, era quella di portare alla fede cattolica romana i popoli dell’impero etiopico. Ma la missione d’Etiopia era ben differente dalle altre: si trattava dí impiantare e di portare avanti l’attivitá missionaria in un paese di antiche tradizioni cristiane e di una religiositá particolare, uniti a difficoltá senza numero. Guar­dandosi bene attorno e cogliendo ogni suggerimento possibile, il De Jacobis e i compagni si consacrarono con generositá al loro compito. Alcuni anni dopo soltanto, l’iniziale ispirazione della ri­cerca dell’unione con Roma per mezzo dell’azione dei missionari europei, gradualmente si mutó nella intuizione della conversione dell’Etiopia per mezzo degli etiopi. « Un prete dell’Abissinia, scrive il De Jacobis fi 28 settembre 1846′, profondamente catto­lico, e sufficientemente istruito, a causa dí quella sua perfetta noti­zia della lingua, degli usi, e fin dei pregiudizi dei suoi connazionali, notizia cui assai difficilmente perviene un europeo, per tutto questo egli qui fatica sempre con successo incomparabilmente superiore a quello di un europeo. Com’essi poi seguono la liturgia e la cat­tolica disciplina oríentale, per questo fanno essi rapidamente avan­zare la causa cattolica in una gente, come questa, che non si lascia prendere che da quanto vede e conta con mano».

L’Etiopia era divisa etnicamente, políticamente e religiosamente in diverse regioni. I tre missionari vincenziani dovettero tener conto di questa realtá e percíó si divisero fi campo di lavoro, in modo da svolgere il loro apostolato contemporaneamente in tre zone, al sud (Scioa), al centro (Amhara con capitale Gondar) e al nord (Tigré con capoluogo Adua). L’azione missionaria avrebbe avuto il suo sviluppo nei tre centri e nel caso che i missionari fossero stati perseguitati e cacciati da una parte, avrebbero sempre avuto rifugio in un’altra. Sapeto, piú pratico della lingua e del paese, sarebbe andato nella Scioa, invitatovi dal Ras Sahla Sellas­sié, anche per un possibile inserimento presso i Galla, popoli pagani; Montuori sarebbe andato a Gondar, antica capitale dell’im­pero etiopico; De Jacobis sarebbe rimasto a Adua, anche per te­nere le comunicazioni con Massaua e la corrispondenza con l’Eu­ropa. Questo disegno non fu mai visto con entusiasmo dai supe­riori maggiori, i quali avrebbero preferito che i confratelli avessero concentrato le loro attivitá e i loro sforzí in un’unica zona. Le cose continuarono come eran state predisposte dai tre missionari, tuttavia di fatto le grandi linee del loro disegno ebbero solo parziale esecuzione in quanto fi Sapeto, malfermo in salute, in quel tempo restó sempre col Montuori a Gondar alloggiati in una ca­setta che avevano comprata nel quartiere inviolabile. Per il paese dei Galla al sud, fu creato poi nel 1846 un nuovo vicariato apo­stolico, affidato al famoso cappuccino Mons. Guglielmo Massaia. Per il resto del territorio fu provvidenziale l’aver fissato le stazioni o residenze missionarie in diverse regioni, specialmente per far fronte al pericolí delle due grandi persecuzioni promosse dall’abuna Salama, il quale si serví prima di Ubié, capo del Tigré, e poi di Kassa, fi futuro imperatore Teodoro II. In pratica quindi, nel tem­po della missione del De Jacobis, rimasero sempre almeno contem­poraneamente due zone d’intervento missionario, il nord (Adua) il sud (Gondar), oppure l’est (Massaua) e il sud (Halaí), anche l’est (Adua) e l’ovest (Khartum). Questa rimase in piedi per circa cinque anni (1842-1846), guando fi Montuori dovette sfuggire alla persecuzione dell’abuna Salama. Alcuni anni dopo, il De Jacobis, consacrato il suo coadiutore Mons. Lorenzo Biancheri cm. (1804-1864), lasció questi al nord (Halai) ed egli nei primi mesi del 1854 partí per Gondar al fine di visitare la parte meridionale del suo vicariato, a lui ancora sconosciuta, e andando incontro alla prigione e all’esilio decretati da ras Kassa.

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Prima di separarsi, fi 10 dicembre 1839, i tre missionari non avevano solo tracciato le grandi linee del piano missionario, ma si erano intesi anche sul metodo e la strategia della loro azione. Questa intesa si articolava in cinque punti: 1) stabilire buoni rap­porti con i capi e le loro corti, ma tenersene lontani il piú pos­sibile; 2) esporre la dottrina cattolica con serenítá di animo e semplicitá di forma, fuggendo le controversie irritanti; 3) coltivare le simpatie del clero e dei defteri; 4) evitare le fondazioni vistose condurre la vita modesta del missionario sempre in cammíno fra i villaggi dell’interno; 5) non ingerirsi negli affari politici.

Il metodo é nel genere dei procedimenti atti a garantire la fun­zionalitá e la perseveranza dell’azione missionaria, e quindi riguarda piuttosto il modo di agire e di comportarsi. Mentre invece la stra­tegia ha una particolare attinenza alla capacitó di capire le situa­zioni ín movimento, alla duttilitá nell’impiego dei mezzi e degli accorgimenti opportuni, e alla coordinazione di tutte le componen- ti dell’azione missionaria per raggiungere nel modo migliore lo scopo prestabilito.

Il metodo e la strategia, studiati dal De Jacobis e dai com­pagni, erano solo un progetto iniziale che richiedeva un aggiorna­mento continuo.

De Jacobis, durante il periodo di iniziazione a Adua, fece una vita piuttosto ritirata nella piccola casa che si era costruita, e divise il tempo nella preghiera, nello studio e nella graziosa acco­glienza di tutti coloro, etiopi ed europei, che venivano a visitarlo. Piano piano, a differenza dei missionari protestanti cacciati alcuni anni prima, trovó la chiave del cuore degli etiopi e lo fece tanto bene da attirarsi la generale benevolenza. Giustino comprese l’ani­mo e lo stile di vita di quella buona gente, li aiutó umilmente pió che poté e ne diventó il confidente e il servitore fedele. Dopo poco tempo dal suo arrivo assunse in pieno la vita degli etiopí in tutti gli aspetti possibili, tanto che fino al giorno d’oggi non lo credono un forestiero ma uno di loro, « abissino con gli abis­sini ». Giustino ebbe fiducia in loro ed essi gli credettero, lo ri­spettarono e lo seguirono: per loro fu un amico, un maestro, un benefattore, un padre. Fin dai primi mesi pensaron anche a dargli un nome, abba Yaqob Mariani, per la devozione che mostrava verso la SS. Vergine

De Jacobis, anche dopo amare delusioni e a volte in contrasto col parere di altri missionari, rivolse particolare attenzione al clero e al monaci del luogo come pure alla cura delle vocazioni ecclesia­stiche, che raramente mandó nei collegi di Europa. Li formó sul posta con un metodo fatto su misura per i giovani e gli adulti venuti al cattolicesimo. Visse con loro e come loro, anche da ve­scovo, diede loro l’istruzione sufficiente e pratica, li portó con sé nei viaggi, li fece assístere e partecipare alla preghiera e litur­gia etiopica, alla predicazione, all’amministrazione dei sacramenti, alle opere di beneficenza, li mandó, giá sacerdoti, due a due a preparare le nuove fondazioni, cosi a Halai, a Hebo, a Acrur… Mons. Massaia riconobbe questo metodo come il piú indicato lo imitó. Cosi dopo le ordinazioni del 1847, tenute da Mons. Massaia, Giustino inizia gradatamente la conversione dell’Etiopia per mezzo degli etiopi. In questo modo si comportó durante tutto il tempo della sua missione senza mai smentirsi, anche nei mo­menti terribili delle persecuzioni e delle dolorose apostasie.

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Il metodo missionario fu peró sempre collegato a una strategia accorta, anche se non compresa da tutti. Giustino De Jacobis, intuita l’importanza della missione che voleva affidargli Ubié, al­l’inizio del 1841, di guidare una numerosa deputazione etiope al Cairo per riportarne il nuovo Abuna monofisita (capo di cui la Chiesa etiope era priva da pió di dieci anni), seppe assumersi, non senza intimo travaglio, la pesante responsabilitá della guida. Ma, con intervento pastoralmente intelligente e tenace, seppe re­dimerne la motivazione ottenendo di portare la deputazione anche a Roma, a ossequiare fi romano Pontefice, e a Gerusalemme. Fu un gesto moho ardito, che gli costó gravissimi sacrifici, ma l’im­presa sostanzialmente segnó un successo, ponendo le basi dell’af­fermazione della Chiesa cattolica in Etiopia. La testimonianza vi- vente dei deputati etiopi per quello che avevano visto a Roma

per la infinita bontá del De Jacobis fu la migliore raccoman­dazione per la missione nascente. Da allora peró si scatenarono pure le persecuzioni, istigate proprio dall’abuna. Salama. Da parte del De Jacobis fa loro riscontro di volta in volta, per diciannove anni, la strategia della difesa, dell’esilio, del ritorno, della confes­sione ímpavida della fede, del sacrificio della vita, della tenace ricostruzione, della presenza tempestiva dovunque c’é un’anima che invoca abuna Yaqob.

Le persecuzioni peró non sono l’unica avversitá per l’azione missionaria. Giustino deve far fronte, coi poveri mezzi che ha, alla divisione degli animi, alla diversitá delle vedute (specialmen­te riguardo all’istituzione di un vescovo cattolico, alla gestione dell’amministrazione e alla collaborazione dei preti e monaci etio­pi), alle incomprensioni dei superiori, alle infedeltá di qualche discepolo o missionario, all’instabilitá proveniente dalle lotte san­guinose tra i capi, alla difficoltá di corrispondere con l’Europa, non ultima alla gravissima ristrettezza economica. La preghiera, la prudenza, la carita, l’infinita pazienza, il coraggio e la mortifi­cazione sono i mezzi costanti della sua azione portata avanti per­sonalmente.

Giustino sa coglíere anche i momenti favorevoli per dare con­sistenza e respiro all’azione missionaria. Sull’onda della popolaritá e del credito, accrescíuti dal sostanziale successo del víaggio in Egitto e in Italia, nonostante la presenza del nuovo abuna Salama, si fece vedere un po’ dappertutto nei villaggi e nei mo­nasteri del Tigré e del territorio di frontiera. Poté cosi far cono­scere e seminare la fede cattolica, riusci a trovare a Guala il luo­go adatto per il collegio-seminario dell’Immacolata, diede un in­dirizzo cattolico al circondario di Enticció (terra offerta da Ubié al cattolico Schimper per riconoscenza verso lo stesso De Jaco- bis), portó a maturazione diverse conversioni tra cui quelle par­ticolarmente importanti del botanico tedesco Wilhelm Schimper e del monaco Ghebre Michael, continuó lo studio utilissimo della liturgia etiopica, la cui traduzione invió a «Propaganda» negli ultimi anni della sua vita. Altra occasíone favorevole fu la ospi­talitá data a Mons. Massaia e al suoi compagni per quasi un anno a Guala per la sistemazione delle ordinazioni, iniziando cosi un nuovo corso di evangelizzazione per mezzo dei sacerdote etio­pi, rimasti nel loro rito: linea che continuó e incrementó dopo la sua consacrazione episcopale (8 gennaio 1849), benché negli ultimi anni non avesse piú l’aiuto del suo coadiutore mons. Bian­cheri.

La visita canonica della fine del 1851 diede animo al De Jaco- bis per cercare una sistemazione migliore all’interno della comu­nitá missionaria, dove grosse ombre avevano ostacolato il genui­no apostolato missionario e ferito il suo cuore: purtroppo i suoi interventi forse non furono creduti urgenti. Come pure non fu data esecuzione alla sua proposta, benché approvata da tutti, di un’assistenza cattolica agli etiopi pellegrini a Gerusalemme.

Negli ultimi anni, dopo lo sfacelo della missione prodotto dalla cruenta persecuzione di Teodoro, Giustino non si perdette d’ani­mo, ricostrui quello che era possibile, cercando anche di favorire l’occasione propizia dell’interessamento della Francia per ras Ne­gusíé, nipote del vinto Ubíé e rivale di Teodoro. La morte lo colse con le armi in mano: le pacifiche armi del regno di Dio e il soggetto delle mie continue meditazioni per scuotermi nella mea debolezza. Attualmente l’elemento che gioca in Abissinia é senza dubbio il credito a questo venerando prelato goduto in vita e confermato dalla mirabile storia della sua morte. Prego percii di raccogliere tutti i fatti che col tempo potranno determi­nare la Chiesa a concedere un culto ad un tanto apostolo con gran vantaggio della missione da lui fondata in vita e santificata in morte»

Massaia seppe della morte del De Jacobis solo sei mesi dopo, e ne fece cenno in una sua lettera: «Abbiamo ricevuto l’infausta notizia della morte di Mons. De Jacobis, mio padre in tutto e figlio nell’episcopato! E questa nostra missione soffrirá molto, perché non avremo piú una persona cosi premurosa per noi, un santo, per cui basterebbe ció che ho visto io per canoniz­zarlo, se fossi Papa!». E in un’altra lettera del 1864 al Prefetto di «Propaganda» scrisse: «lo credo di poter dire con giustizia che se in Abissinia si é fatto qualcosa, il novantanove per cento deve attribuirsi al defunto Monsignore, dal quale io stesso con­fesso di ayer ricevuto lezioni che ancora oggi forman.

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