VIII – Ed é subito sera…
Federico usci dal periodo di impegno sociale e politico del 1848 estenuato fisicamente e psicologicamente. Perció, dietro insistenza dei medici, dovette lasciare di nuovo Parigi, la sua casa, la scuola, e iniziare un pellegrinaggio multiforme in cerca di salute.
Eccolo dapprima, con la moglie e la bambina, a Farney, presso Ginevra, cittá dove tenne una vibrante allocuzione alle Conferenze di Caritá. Questo sara il suo apostolato missionario in tutte le localitá dove fará tappa.
Nelle vacanze del 1850 raggiunse la Bretagna, soggiorno che gli giovó assai per la salute. Rientró a Parigi nell’ autunno e riprese l’insegnamento, continuando le lezioni sulla Civiltá nel secolo V.
La primavera del 1851 gli portó una sensibile sofferenza: caddero infatti ammalate abbastanza gravemente la moglie e la bambina. Decise pertanto di affittare una casa di campagna a Scéaux e vi si trasferí con le due persone che aveva piú care al mondo. Di lá veniva a Parigi per le lezioni e gli esami alla Sorbona.
Anche in questo villaggio Federico trovó modo di fondare la Conferenza di Caritá, ma poiché gli índigenti del villaggio non erano numerosi, con l’aiuto dei Confratelli trasformó la Conferenza in Confraternita mariana per le giovani cristiane. Cosi, attraverso la carita e la devozione alla SS. Vergine, egli poté adoperarsi a ricondurre gli abitanti alla Fede.
Nell’ agosto, da Scéaux si portó a Dieppe e di lá, invitato da Gian Giacomo Ampére, passó a Londra, per visitare la grande esposizione del Palazzo di Cristallo.
Due cose soprattutto lo colpirono del popolo londinese, al margini dello splendore dell’Esposizione del progresso: la miseria dei poveri e dei lavoratori, specialmente irlandesi, e l’ostilitá viscerale dei protestanti contro i cattolici e la Chiesa di Roma.
L ‘ultima lezione
Verso la fine del 1851, nonostante l’opposizione dei famigliari e dei medici, volle riprendere le lezioni. «Devo rimanere al mio posto —diceva— anche a costo di morire. Sono un operaio e debbo fare la mia giornata!».
Con volontá singolare continuó il suo corso sino alle vacanze pasquali del 1852, ma poi dovette desistere. Quando peró seppe del disappunto degli studenti, volle recarsi ancora una volta alía Sorbona, sorretto dal braccio di un amico. Fu accolto da un’ovazione, ma le parole di Federico furono severe: «Signori —disse— si accusa il nostro seco- lo di essere un secolo di egoismo e si accusano i professori… Eppure é proprio sulla cattedra che noi logoriamo la nostra salute e le nostre forze! Non mi lamento. La nostra vita vi appartiene e io ve la dono fino all’ultimo alito, contento di morire al vostro servizio!».
Tenne la sua lezione con un ardore singolare, ma al termine dovette essere sorretto per lasciare l’aula. Fu l’ultima lezione. Federico Ozanam non sarebbe piú salito in cattedra.
Lacordaire, guando venne a conoscenza di questo episodio, scrisse all’ amico: «Se la vita é poca cosa per noi, dobbiamo averla cara per gli altri!».
Una pleurite maligna gli impedí ogni attivitá. PHI tardi si aggiunse l’insufficienza cardiaca, con enfiagione degli arti inferiori. Solo il 6 luglio, passabilmente rimesso in sesto, poté ripartire in cerca di un clima meno afoso per EauxBonnes e poi per Biarritz, verso i Pirenei, con tappa al santuario di Bétharram.
Questo santuario vetusto era una meta di importanti pellegrinaggi fin dal Medio Evo ed anche nel 1851 molti erano i fedeli che andavano a pregare la Vergine del “Bel Ramo”. Il suo nome infatti, “Bet Arram” in dialetto bearnese, significa Bel Ramo e sembra che sia dovuto ad una graziosa leggenda, secondo la quale, una fanciulla in procinto di annegare nel fiume Gave, venne salvata da un ramo sporgente, dopo ayer chiesto aiuto alla Madre del Cielo. Le apparizioni di Lourdes dovevano avvenire solo nel 1858 ed il suo santuario non esisteva ancora.
Oggi molti pellegrini e turisti si recano a Bétharram, anche per visitare le famose grotte disposte su cinque piani, che costituiscono uno spettacolo naturale di grande interesse per tutti. Non sappiamo se anche Ozanam vi si sia recato.
La Spagna era a un tiro di schioppo e Federico volle visitare i Paesi Baschi, in compagnia della moglie, della bambina e del fratello medico. Giunse a S. Sebastiano, ma fi suo desiderio era di portarsi sino a S. Giacomo di Compostella. La debolezza non gli permise di oltrepassare Burgos.
Quel breve viaggio in Spagna gli serví per stendere un piccolo gioiello di arte e di fede, intitolato «Un Pellegrinaggio nel Paese del Cid» e pubblicato postumo dal Correspondant, nel mese di ottobre del 1855.
Sempre assillato dal pensiero della carita, fece sorgere a Burgos la prima Conferenza di S. Vincenzo in terra spagnola. Dieci anni piú tardi i gruppi caritativi della Spagna erano 500.
Nel paese natale di S. Vincenzo De Paoli
Rientrato in Francia, prima di lasciare la Guascogna, Federico volle visitare Pouy, il paese e la casa natale del suo grande protettore e padre dei poveri, S. Vincenzo, «Colui — diceva Federico— che ha salvato la mia giovinezza da tanti pericoli e che ha riversato sulle nostre umili Conferenze tante benedizioni!».
Il fratello Alfonso, sacerdote e suo biografo, ricorda che ai piedi della «quercia» sotto cui il Santo giovinetto pascolava il gregge, oggi simbolo di tutta l’opera vincenziana, Federico disse: «Noi siamo solo l’erba che cresce ai suoi piedi. L’erba cresce rapidamente, ma non cessa per questo di restare piccola, e, benché ricopra molto spazio di terra, non dice per questo: «Io sono la quercia!»».
Per un’eccezione singolare Federico ottenne anche dai Missionari di Pouy un rametto della quercia, ed egli si affrettó subito a mandarne una foglia al Consiglio Generale delle Conferenze di Parigi con queste parole: «Vi mando, cari amici, una foglia dell’albero benedetto. Essa seccherá nel libro do- ve la metterete, ma la carita non seccherá mai nel vostro cuore…In essa io vedo l’immagine delle fondazioni di S. Vincenzo De Paoli, che non sembrano legate alla terra da nulla di umano e che tuttavia vincono i secoli e nelle rivoluzioni prosperano an‑cor piú!».
Dopo un’ultima visita al piccolo santuario di Nostra Signora di Buglose, dove si era recato pellegrino anche S. Vincenzo, la comitiva di Ozanam riprese il cammino, per andar a trascorrere l’inverno ormai incipiente al dolce clima d’Italia.
Passando per Tolosa, Marsiglia e Nizza, la famiglia giunse a Genova, dove si imbarcó per Livorno, sul piroscafo «Maria Antonietta», ma la traversata fu disastrosa per il maltempo.
Del resto «il bel sole d’Italia», nel quale Ozanam ave- va tanto sperato, fu molto avaro in quell’inverno piovoso e noioso.
Il 10 gennaio 1853 giungevano tutti a Pisa.
Per addolcire il forzato riposo, Federico aveva di nuovo ottenuto dal Ministro della Pubblica Istruzione, Ippolito Fortoul, suo amico, l’incarico di fare ricerche sulle «Origini delle Repubbliche Italiane», lavoro condotto, con molto impegno e serietá.
Partendo da Nizza, con un presentimento inconscio, Federico aveva scritto una lettera al fratello medico, datata 2 gennaio 1853, terminando con queste profetiche pa- role: «Volo quomodo vis, volo quandiu vis: o Signore, voglio ció che vuoi tu, fino a guando vorrai tu!». Era l’atto di accettazione cristiana del periodo di sofferenza fisica e morale, che doveva prepararlo al grande passo del ritorno alla «Casa del Padre».
Pioggia «eterna, maledetta, fredda, greve»
Cosi, parafrasando quanto dice Dante nel terzo cerchio dell’Inferno, Ozanam descriveva l’inverno inclemente che aveva incontrato a Pisa. Il 4 marzo confidava all’Abate Maret: «Ormai da quaranta giorni viviamo avvolti da un velo di pioggia, che talvolta si raggruma in neve e che poi venti furiosi sollevano».
Ogni giorno, dopo la S. Messa del mattino in una chiesa vicina, Federico si recava alla biblioteca civica, per com piere ricerche sull’Origine delle Repubbliche italiane e sull’Emancipazione del Comune di Milano. Nel pomeriggio dava qualche breve lezione alla sua piccola Maria.
Subito peró giunsero gli inviti dalle varíe Conferenze di Caritá della Toscana, a cui egli aveva ottenuto una certa libertó d’azione ricorrendo alla Granduchessa.
Il 30 gennaio, appena rimesso dalle fatiche del viaggio, si recé a Firenze e pronunció un memorabile discorso ai Confratelli.
Fu poi la volta delle Conferenze di Livorno, Pontedera, Prato e Siena.
In questo periodo gli fu amico e confessore abituale p. Massucco Claudio, Superiore dei Missionari di S. Vincenzo di Livorno.
San Jacopo e Antignano
Ai primi di maggio Ozanam e famiglia poterono trasferirsi in riva al mare, in un paesello vicino a Livorno, San Ja- copo.
Vi restarono per due mesi e poi si trasferirono ad Antignano, villaggio ai piedi di Montenero, nella villa Berni.
Doveva essere l’ultima tappa del soggiorno in Italia. La salute di Federico peggiorava sempre piú per albuminuria grave ed enfiagione alle gambe, che gli rendeva difficile il procedere.
Il 23 aprile aveva compiuto 40 anni. La ricorrenza gli suggeri un abbozzo di testamento spirituale, che ha dei tratti commoventi.
«Ho scritto in poche paro le —egli dice— le mie ultime volontá, proponendomi di stenderle nei particolari, guando avró maggior forza.
Rimetto la mia anima a Gest? Cristo, il mio Salvatore, tremante per i miei peccati, ma fidente nella sua infinita misericordia.
Muoio nel seno della Chiesa cattolica, apostolica e romana. Conobbi i dubbi del secolo presente, ma tutta la mia vita mi ha convinto che non vi é riposo per l’intelletto e per il cuore, se non nella Chiesa e sotto la sua autoritd…
Alla mia affettuosissima Amelia, che formó la gioia e la felicita della mia vita… rivolgo addii brevi. La ringrazio, la benedico e l’aspetto in cielo. Lá soltanto potr6 renderle tanto amore quanto lei ne merita.
Dó a mia figlia la benedizione dei Patriarchi… Mi rattrista il non poter piú lavorare all’opera della sua educazione, ma l’affido, con piena fiducia, alla sua virtuosa e diletta mamma…».
Quando riaprirá questo testamento spirituale, sará per aggiungere un commosso ringraziamento per le persone che lo stavano assistendo in quell’estremo lembo di luce della sua vita. Tra queste persone egli nominó espressamente il P. Claudio Massucco, suo confessore e collaboratore nella conduzione delle Conferenze di Caritá della Toscana.
Gli ultimi suoi lavori
Appena la malattia gli concedeva un attimo di tregua, egli riprendeva in mano i suoi scritti e particolarmente due, che erano rimasti incompiuti: «Un Pellegrinaggio al Paese del Cid» e «I Poeti Francescani in Italia nel XIII secolo».
Egli scriveva lentamente, sul medesimo tavolo su cui studiava la bambina, accanto alla mamma. Ogni tanto interrompeva il suo lavoro per leggere qualche passo alla moglie.
Fu l’opera «I Poeti Francescani» che lo segnalb all’Accademia fiorentina della Crusca. Vi fu ricevuto come membro, nella stessa seduta in cui fu ricevuto lo storico Cesare Balbo (9 maggio 1853).
Le onorificenze, alle quali tuttavia Federico parve non dare grande importanza, non avevano atteso a piovere al tramonto della sua vita. Egli era infatti membro corrispondente dell’Accademia Tiberina di Roma fin dal 1841; membro dell’Accademia degli Arcadi (1844); Cavaliere della Legion d’Onore a 33 anni (1846); membro dell’Accademia di Baviera (1847); dell’Accademia di Lione (1848); e il 22 giugno 1853, scrivendo al suo amico Gian Giacomo Ampére, rinunciava alla nomina all’Accademia delle Iscrizioni con queste parole: «Il momento é troppo solenne e non mi permette di pensare a queste vanitd!».
Il fatto peyó che piú profondamente lo commosse nella sua fede, fu l’aggregazione al Terz’Ordine Francescano, giunta col sigillo del Padre Generale a San Jacopo.
L’ultima S. Messa
Il 15 agosto, festa di Maria Assunta, nessuno poté trattenerlo dal recarsi alla Santa Messa, appoggiato al braccio della moglie.
Due file di contadini lo accolsero alla porta della chiesa con gesti di saluto e di simpatia, che gli toccarono il cuore.
Il vecchio parroco di Antignano, assai cagionevole di salute anche lui, volle riservarsi l’onore di celebrare e di comunicare Ozanam e la sua sposa.
Per il parroco fu l’ultima Messa celebrata e per Ozanam l’ultima a cui assistette.
Da Parigi intanto erano giunti i fratelli, Don Alfonso e Carlo, il Dottore.
Ben conoscendo il desiderio di Federico di morire in patria, i due fratelli cominciarono a predisporre il suo rientro in Francia.
Non gli restavano in realtá che una quindicina di giorni di vita. In questo tempo i santi colloqui col fratello sacerdote e col confessore non fecero che affinare in Federico l’accettazione della volontá di Dio: «Volo quomodo vis, volo quadiu vis: O Signore, voglio ció che vuoi tu, fino a guando vorrai tu!».
Il 31 agosto, prima di lasciare la casa di Antignano, si fece accompagnare sul terrazzo di fronte al mare, si tolse cappello, e, alzando le mani al cielo esclamó a voce alta: «Mio Dio, vi ringrazio delle sofferenze che mi avete mandato in questa casa; accettatele in espiazione dei miei peccati!».
Seduto su di una poltrona fu portato dalla villa al porto di Livorno, ove si imbarcó sul vapore «L’Industrie». Prima della partenza, giunsero a salutarlo sacerdoti, religiosi e Confratelli di S. Vincenzo.
La traversata fu tranquilla ed egli riposó in cabina, ma al mattino, dopo la sosta a Bastia, fu adagiato su di un lettuccio sul ponte stesso della nave, affinché potesse meglio respirare.
Si assopi e al suo risveglio apparve il porto di Marsiglia. Lieto dell’ annunzio Federico esclamó: «Ecco terminato un viaggio; sto per iniziarne un altro, ma sono tranquillo!».
Non fu possibile proseguire subito per Parigi, per la sua grande debolezza, e fu ospitato da alcuni parenti a Marsiglia.
Anche qui si accese subito una gara di uomini di cultura, di Confratelli di S. Vincenzo e di umili persone, che volevano salutare e ringraziare il piú popolare dei fondatori delle Conferenze di Caritá. Ma egli non poté ricevere alcuno per disposizione dei medici.
Sentendo ormai prossima la sua fine, chiese spontaneamente il S. Viatico e l’Olio degli Infermi e al sacerdote che lo esortava a confidare nella bontá di Dio, rispose con serenitá e gioia spirituale: «E come potrei temerlo? Lo amo tanto!».
L’8 settembre, festa della Nativitá di Maria SS., non fu notato nell’ ammalato un peggioramento. Parlava raramente, ma sorrideva e porgeva anche la mano in segno di riconoscenza. Verso sera peró, la respirazione si fece difficoltosa.
Ad un certo punto apri gli occhi, alzó le braccia ed esclamó con voce intelligibile: «Dio mio, Dio mio, abbiate pietá di me!».
Il fratello sacerdote diede inizio alle preghiere per la raccomandazione dell’anima, mentre la moglie ed i parenti in ginocchio singhiozzavano. Nella stanza accanto, i Confratelli di S. Vincenzo pregavano in silenzio.
Alle ore 19,50 mandó un lungo sospiro e si rilassó. Era l’ultimo segno di vita.
Le anime belle muoiono con tanta umiltá e le parole di Federico Ozanam fioriranno sulle labbra di tutti i santi, nel supremo momento in cui lasciano questa terra.
Bernadette Soubirous ripeterá sul letto di morte: «V ergine Maria, Madre di Dio, abbiate pietá di me, povera peccatrice!».
I suoi funerali
Tre cittá si disputavano la sua tomba: Marsiglia, Lione e Parigi. Fu preferita Parigi.
Dopo una modesta liturgia celebrata a Marsiglia, la sua salma fu trasportata nella capitale e, nella chiesa di S. Sulpizio, ebbero luogo funerali solenni con grande concorso di folla: uomini di cultura, Confratelli di S. Vincenzo, gente del popolo e poveri.
Era l’omaggio di riconoscenza di una societá incredula travagliata da mille problemi, all’uomo di cultura, di fede di cuore per la povera gente.
Poi la bara, col permesso del Ministro dei Culti, fu tumulata nella cripta della storica chiesa del Carmine, all’Istituto Cattolico.
Lá, tra quei giovani “che egli volle catechizzare” , secondo le parole di Lacordaire, riposa in attesa della gloria degli altari, ma le sue ceneri parlano ancora al mondo di carita.
Sulla sua tomba la moglie e la bambina fecero porre una lapide con poche semplici parole: “Amelia coniugi cum quo vixit ann. XII, et Maria patri posuerunt. Vivas in Deo! : Amelia allo sposo col quale visse 12 anni, e Maria al proprio babbo, posero. Possa tu vivere in Dio!”.
Nella cappella di S. Giuseppe della chiesa superiore, fu posta un’altra epigrafe piú diffusa e retorica.
Poi, nel 1913, in occasione del primo centenario della nascita di Federico Ozanam, i Confratelli di S. Vincenzo eressero sulla tomba un modesto monumento marmoreo con una terza epígrafe, nella quale spiccano queste significative pa- role: “Hic in pace Federicus Ozanam, conquisitor juvenum in militiam Christi…: Raccoglitore di giovani per la milizia di Cristo…”.
Sono quelle numerose schiere di giovani che in tutte le parti del mondo, secondo l’espressione di Lacordaire, “han- no posto la castita sotto la tutela della carita, la piú bella virtú sotto la piú bella custode” .
E stato questo il merito piú grande di Federico Ozanam: indicare al giovani di ogni tempo la via della carita, per un’apologia concreta della Fede e per un’azione sociale cristiana: “Veritatem facientes in charitate”: testimoniare la veritá con la carita.
In tal senso egli pub essere riguardato come un precursore dell’Azione Cattolica. Tutto il resto, il plauso del mondo e le epigrafi marmoree, non avrebbero nemmeno sfiorato l’animo di Ozanam, sempre cosi umile di fronte a Dio ed al- la morte stessa.
In una lettera del 29 lu. 1942, in occasione degli splendidi funerali di Stato del Principe Ferdinando Filippo, figlio del Re Luigi Filippo, morto a 32 anni di eta per un incidente stradale, egli aveva scritto alla moglie, descrivendo la grande parata: “Le donne parlavano con rispetto della Regina e gli uomini si sono tollo il cappello guando é passata la croce. L’impressione sugli spiriti é stata benefica. Il popolo ha bisogno di essere commosso qualche volta; ha bisogno di spettacoli. Se si rifiutano al popolo le processioni, finisce di volere dei patiboli! IZ corteo peró, era troppo militare!… Tutta questa pompa militare era magnifica, ma suscitava questa amara riflessione: tutti i poteri di una regalitá, tutta la ricchezza di una grande nazione, tutto il genio dell’arte, tutto ció che concorre a queste pompe superbe, non possono ridonare un soffio di vita alle labbra di un uomo di 30 anni ed asciugare le lacrime della sua vedova. In questa inflessibile eguaglianza della natura, c’é una lezione severa per le nostre impazienze e bramosie. E la Provvidenza ci insegna come occorre stimare le grandezze della terra, guando le piú alte sono soggette a simili mutamenti. Una cosa sola avrei voluto che ci fosse in quella folla immensa, oltre il decoro e la pietá, soprattutto una cosa: la preghiera. Quale tesoro piú grande per un’ anima di un defunto della preghiera di cento mila cristiani, che sale verso il cielo? Per conto mio non ho rifiutato questa carita suprema, che il Principe, passando nel suo lusso lugubre, sembrava chiedere, ed ho recitato il De Profundis!…».
Anche noi deponiamo una preghiera sulla tomba di Federico Ozanam, ma con la ferma speranza di averío presto intercessore presso Dio e Patrono delle Confraternite di Caritá, iscritto nell’albo dei Santi.
La sua causa di beatificazione e canonizzazione, affidata al Missionari di S. Vincenzo, é stata introdotta a Roma nel 1954, cent’anni dopo la sua morte. La «Positio super Virtutibus» del 1985 é stata discussa dai Consultori storici il 3 marzo 1992 con voto favorevole.
Il 18 dicembre 1992 ha avuto luogo la riunione dei Teologi, che hanno espresso parere favorevole all’unanimitá (nove voti su nove). Si attende per la primavera la riunione dei Cardinali in vista della Eroicitá delle virtú e poi la dichiarazione del Papa. Federico Ozanam avrá cosi il titolo di Venerabile.